Un po’ meno morto di un qualunque altro morto

Il testo è un monologo ambientato nel marzo del 2020 e trae spunto da un fatto reale, trasmesso dai telegiornali dell’epoca: camionette militari che, nella notte del 18 marzo di quell’anno, sfilavano, una dietro l’altra, portando via dalle terapie intensive degli ospedali lombardi decine di morti di Covid-19, per condurle ai crematori. Senza funerali. In fretta, per non diffondere il contagio.

A parlare è uno scrittore, deceduto in un ospedale dopo settimane di terapia intensiva, destinato poi, con altre decine di cadaveri, a esequie frettolose, prive di quelle parole e di quelle lacrime che testimoniano solitamente un decesso e accompagnano l’ultimo saluto. E così lui, che ha affidato la sua vita, non solo alle parole, ma anche all’immaginazione, può illudersi di essere ancora in vita, o almeno di essere un po’ meno morto di tutti gli altri, perché alla sua dipartita sono mancati i dettagli essenziali per suggellare ogni morte. Così, si aggira come un guscio vuoto, un’anima in pena, alla ricerca della verità, nella nostalgia profonda della vita – proprio come tutti i personaggi della Divina Commedia – tentando di ricostruire i fatti e di vedere, nell’ultima ora, i volti amati, quell’estremo sguardo amorevole negato in un inferno di ospedale. E lui non ha pace, gira e rigira in attesa di quella mano pietosa che lo struggimento della morte reclama, per poter essere, infine, un morto come tutti gli altri e capire, finalmente, che la sua inaspettata fine è un evento reale, definitivo, inesorabile. E poter riposare in pace.
Questo cortometraggio è un monologo da rappresentare in un luogo asfittico, come un sotterraneo colpito da una luce abbacinante con ombre nette, che dia l’idea della desolata solitudine del protagonista. Lo scrittore è un uomo maturo, ma ancora giovane, di bell’aspetto, tutto vestito di nero, la faccia pallida, le labbra livide, il movimento a tratti nervoso, a tratti curvo e rassegnato.
Il testo è dedicato a quei morti portati via dalle camionette dei soldati senza un funerale, e a tutti quelli che, a causa della pandemia, non hanno potuto avere il conforto di una cerimonia funebre, alla loro impossibilità di essere degnamente onorati, al loro andarsene così, quasi come le anonime vittime di una strage di guerra. È anche dedicato all’orrore della morte che diventa quotidianità, quando quasi ci si abitua ad essa e si finisce per non stupirsi più. Per dire a tutti di non cadere in questo inganno. E infine è dedicato allo scrittore, a colui che con i suoi libri e i suoi poemi, aspira all’immortalità, salvo poi accorgersi che la vera immortalità è il pianto, versato sulla nostra tomba, di chi ci ha amati.

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