Tutti a chiedersi cos’è l’amore, a esplorare possibilità. Di senso, di ragionevole significato per il più girovago dei sentimenti. Amore virtuale, amore reale. Amore che imprigiona, amore che libera. In quanti modi possiamo declinare questa fortunata parola? “L’amore aiuta a vivere, a durare”, dice il poeta. Per questo tutti ci affanniamo a trovare la risposta più calzante, la locuzione perfetta per un sentimento che ha fatto della imperfezione la sua più intima, travolgente sostanza. Tutti lì ad interrogarsi. Pochi invece disposti a perdere una briciola di tempo dietro a un altro sentimento, non meno zingaro, subdolamente zingaro. Si chiama amicizia. Difficile parlarne. Difficile dire cosa sia esattamente. Fioriscono i modi di dire. “L’amico si vede nel momento del bisogno”. “Chi trova un amico trova un tesoro”. Stronzate. Primo. L’amico lo vedi nel momento della gioia. Perché a battere mani caritatevoli su una spalla dolente ci vuol poco. È un battito di ciglia, lo schioccare fervido di dita pronte a muoversi al primo cenno di fragilità dell’altro. Cosa può esserci di più grandioso per la nostra umana, misera piccolezza? Ci vuole molto di più per condividere la felicita, il successo, il sole che ride, ma solo nella metà campo che ti esclude. Tu ombra, tu scheggia di nube nera. Secondo. Chi trova un amico deve chiedersi per tempo se egli stesso sia un tesoro per l’altro. Sguardo lucido. Questo occorre in questo mondo. L’ingenuità lasciamola ai poeti. Noi apparteniamo alla realtà e in questa contrada, in questa latitudine spaesata, l’altro ti vede non con i tuoi occhi, ma con i suoi. Cosa buona e giusta, certo. Ma se in quegli occhi si annidano pregiudizio o ingenerosità, maliziosa gelosia o stupido egocentrismo, che ne è di te che in quella “corrispondenza d’amorosi sensi” avevi risolutamente creduto? Certo il bene e il male non stanno accampati in luoghi separati. Tutti siamo portatori dell’uno e dell’altro. Nessuno escluso. E quando vediamo sfiorire amicizie che credevamo imbattibili, é giusto chiedersi se noi per primi abbiamo gettato i semi del bene o impastato di bassezze la zolla sacra di quel sentimento in decadenza. Ma se devo scegliere tra la fiducia credulona del più credulone degli amici e la disonesta attitudine dell’altro pronto a fare scempio di quella ingenuità, io non ho dubbi. Scelgo la prima, scelgo la fiducia. Perché la fiducia è candore, è abbandono. Equivale, io credo, a farsi trascinare dal vento, dalle sue folate, felici di farlo, perché sicuri dell’approdo. Non per niente fiducia trae senso da fides che vuol dire fede. Ma la fede, si sa, ci fa volare alti, talmente alti da renderci distanti e incomprensibili a chi quella fede non sente né condivide. E invece, come mi ha insegnato un’amica perduta, bisogna che restiamo ancorati alla terra. Attaccati come l’ostrica al suo scoglio. Bisogna, qualche volta, che ci misuriamo con la polvere, per sentirne l’odore, per annusarne la consistenza. La polvere. L’opposto della fede. La polvere di cui tutti siamo fatti. Nessuno escluso.