“Vecchio. Diranno che sei vecchio”. Così canta Renato zero. Zero, che cognome impegnativo in
questi tempi appesi al più diabolico dei dubbi: chi sarà il paziente zero? Tempi. Come ci siamo
finiti dentro? Mala tempora, tuonerebbe l’ottimo Cicerone. E avrebbe certo gioco facile e facili
consensi. Cicerone, senex per eccellenza e certo non solo perché senatore. Di senectus ha riempito
pagine su pagine, nutrendo di saggezza posteri e contemporanei. Vecchi. Un filo rosso, strano a
dirsi, congiunge l’arcaico oratore con il moderno cantautore. Vecchi. Allora, come oggi, si parla di
loro. Mai, poi, come in questi giorni così virulenti, così “incoronati”. Parlo di lui, certo. Di chi o di
che cosa, se no? Del famigerato coronavirus. Famigerato, non si esageri. Appena letale, ma solo per
uno sparuto, smilzo numero di vecchi, magari già rincoglioniti, comunque prossimi a defungere.
Nulla quaestio. Sono solo vecchi, dicono tutti. E poi la conta. Cazzo, ma quanti sono? Nulla
quaestio. Sono solo vecchi, é la vulgata. Serro gli occhi. Nemmeno l’abracadraba delle fiabe muta
l’esistente: parole su parole ad arte affastellate per dire sempre: sono solo vecchi. Suvvia, restiamo
calmi. In ogni caso sarebbero crepati. Via il rosso e il giallo che discrimina spazi e territori, via il
pesante fardello dell’austerity. Inutile grigiore che infiacchisce l’anima, che svuota tasche e
portafogli. Di nuovo serro gli occhi, per un di più di magia. Questa volta c’è un abracadraba che
vince. Sono vecchi sì, li vedo, ma sono i miei vecchi. Hanno il volto di mio padre, il battito stanco
di mia madre. La stessa ruga sciancata, lo stesso piglio ansimante, la stessa sillaba franta. E ora
quel fottuto virus me li sta portando via. Ma sei vecchio, papà, “diranno che sei vecchio, con tutta
quella forza che c’è in te”. E lo stesso diranno di te, mamma, “con quello che hai da dire/ma vali
quattro lire, dovresti già morire/tempo non c’è ne più / non te ne danno più.”
Abracadabra. Ci vuole poco a diventare l’altro, se solo si vuole, se solo ci si immedesima.
Cosa racconterò di questa Italia ai miei studenti quando ritorneremo in classe? Quale Humanitas
potrò indicare come esemplare quando, nella settimana del coronavirus, da ogni parte, in radio, in
TV o nella carta stampata, é riecheggiato, sottotraccia o sotto mentite formule lessicali, quel
disumano, insensato refrain? Sono solo vecchi!
Come potrò scusarmi con il Cicerone del Cato Maior o con il pio Enea che sta lì a guardarci,
mentre sulle spalle ancora trascina per noi il padre Anchise?
Come potremo tutti scusarci con le famiglie di quegli anziani deceduti, beninteso, non PER
coronavirus, ma CON coronavirus. Stupisce tanta solerzia linguistica in assenza di altra solerzia.
Quella buona, compassionevole che si deve ai figli, mogli, mariti, compagni che in questi giorni
hanno perduto molto più di un numero e per i quali non si é spesa una sola umana, solidale parola.
Nel vulnerabile mondo degli affetti non c’è età che faccia differenza. E poi, diciamolo con
l’Arpinate, “nessuno è tanto vecchio da non credere di potere vivere ancora un anno”.