Di Notte, Solo di Notte

Costretta a vivere la sua infanzia con un padre collerico e in assenza della figura materna, Angela nutre un amore malato verso un uomo assolutista e molto più grande di lei. Ma il desiderio di un figlio, di qualcuno che le appartenga, è prepotente. Rinchiusa da anni in prigione, coglie l'occasione di una pericolosa operazione alle corde vocali, per affidarsi alla scrittura e così, raccontarsi a quel figlio adolescente. Il figlio rubato con l'inganno. Con un registro linguistico poetico e denso, ecco la storia di Angela. Storia di ogni donna colpevole d'innocenza.

Estratto

Sono le nove di sera quando ci mettiamo a tavola. Mangiamo in cucina, svogliati e frastornati come dopo una sbornia. Mangiamo i suoi spaghetti al pesto, il roast beef della sera prima, lo strudel più slavo che possa esistere. Profumiamo di lavanda, siamo ancora i due ragazzini toccati d’allegria che solo mezz’ora fa sono finiti insieme sotto il fiotto scrosciante di una doccia briosa. «Brindiamo!» «A cosa, Ivano?» «A noi, naturalmente.» Rimango immobile. Granitica la mia mano su quel bicchiere alzato, pronto a ghermire il futuro, eppure vacillante come barca che fluttua sulla cresta di un mare incupito, in bilico tra la vita e la morte. Noi. Quale “noi” è finito sulla sua bocca? Di chi parli, amore mio? Pensai a te, Carlo. A come eri finito in questo mondo. Tu, gettato in queste nostre paludi di raro risveglio. Creatura incolpevole venuta fuori dalla fanghiglia di una pianura senza risvolto. È di lui che parli, amore mio? Del nostro Carlo? Forse hai paura finanche di pronunciarne il nome. Forse questo nome, già scavato in te – e certo non lo volevi – già penetrato, contro ogni previsione, nei recessi più nascosti della tua anima ribelle, è balzato fuori, fino a toccarla, quella tua bocca augurale. La tua bocca e io che so come perdermi. La tua bocca, Ivano, e la valanga che sta per raggiungerla. «Ho fatto il biglietto per Torino. Parto tra due giorni.» Parlo senza concedermi pausa. C’è spazio solo per un’unica spavalda, fragile emissione di voce. Ripone lentamente il calice sulla tavola, sui girasoli stupiti di una tovaglia fresca di bucato. Non stacca subito le dita dal suo gambo esile, altezzoso. Al contrario, sosta come un passeggero in alta quota raggiunto dall’ordine di gettarsi da un portellone già spalancato sul vasto cielo. Un tuono improvviso si insedia tra noi. Zufola, intanto, il vento oltre l’appanno dei vetri. La mia mano raggiunge la sua. «Brindiamo, Ivano» sollevando, impaurita, in un unico gesto, le mani di entrambi e il bicchiere. Cercando, con inutile affanno, il suo sguardo emigrato già altrove. Occhi ingolfati di ira. È veloce nel guizzo, fulmineo nella presa. In meno di un attimo tutto è in sua balia. Il calice, il vino, il mio destino. I girasoli diventano poca cosa. Il calice cade vilmente in frantumi sul loro perfetto disegno. Il rosso del vino ne trasfigura i colori. C’è spazio anche per me. Capisco che vuole colpirmi. Proteggo il mio volto come posso. Alzo le braccia, serro la vista e gli occhi, gettando la testa nell’incavo del mio gomito, ora più appuntito di mille coltelli. Mi alzo, corro verso la stanza più vicina, la nostra stanza. Il suo piede è più svelto del mio. La sua mano è più temibile di una tigre in rivolta. C’è un pezzo di vetro tra quelle dita dissennate. Allora cerco salvezza. Afferro un cuscino, una sedia, un libro qualunque. Le sue mani mi trovano. Getto le mie spalle sulla parete. Affondo le natiche nella ciniglia del letto. Il mio urlo si mescola a quello di un cielo bombardato da fulmini e tuoni. Adesso le mie ginocchia sono il mio baluardo, più dure di quella parete. Muro contro muro. Questo divento. Pietra ferita, diroccata e inferma. Perché la sua mano decide di affondare e generare ferite che resteranno per sempre. Sento la carne dei miei malleoli aprirsi come un sipario e rivoli di sangue raggiungere i piedi, le unghie, la ciniglia del letto, sentinella inerme di uno scempio che è solo l’inizio di una notte che mai cesserà, mai cederà all’oblio. Mi afferra come un Sansone, mi trascina fuori dal letto, fuori dalla stanza. Non mi reggo in piedi, mi consola il pensiero di una morte imminente. Tale è lo strazio che tocca e attraversa ogni parte di me. Nel corpo, nell’anima. E in ogni piega che l’uno e l’altra contenga. Mi trascina oltre la terrazza, mi sostiene come un padre affettuoso. Mi lascia, esausta e in caduta. Stravaccata e vinta in prossimità della stretta scalinata ancora memore delle recenti risate. Rimane a fissarmi. Pochi attimi e decide di spogliarmi. Via il prendisole, via le mutande, strappate con un colpo secco. Non mi oppongo, non ne ho la forza. Aspetto solo di morire, lì su quella soglia, terra di mezzo, terra di nessuno, dove sto per perdermi, per finire. Spartiacque tra un dentro e un fuori così vicini, così simili da farlo diventare segnalibro inutile, steccato che non separa, che non distingue. C’è una tempesta oltre quella soglia, la stessa che si sta consumando dentro queste sorde pareti. Non finisce qui. Una folata di maestrale, dalla finestra spalancata, ci investe. Vento e acqua. C’è un nubifragio là fuori. C’è un nuovo scenario pronto per me. Mi prende in braccio, come prima, senza quel prima. Affronta con me quei gradini, poi sprofondiamo nella sabbia ora ridotta in fanghiglia. «Basta, ti prego. Basta!» Ed è il mio urlo screpolato che nessuno può sentire. Se ne va, Carlo. Tuo padre se ne va. Mi lascia sulla battigia, a respirare l’odore della risacca. Se ne va, senza neppure voltarsi, sotto il tamburellare ora pungente, ora ovattato di una pioggia incessante destinata alla sabbia, al mare, a me. Un corpo nudo gettato via come un relitto senza storia, bava di serpente da ricacciare indietro. La mia carne infilzata dal buio, lasciata a macerare nel freddo di una notte estiva finita dentro al suo capriccio. Piango. Come un mendicante, come un ramo scorticato che non vedrà più la sua primavera. Sto su un fianco, perduta e accoccolata sulle mie giunture, su quelle che ancora sanno come resistere, come sopravvivere a tutto questo. Grani sottili di sabbia si insinuano nella fessura disperata delle mie labbra, si impastano con la saliva, con il vomito. Trovo il coraggio di allungare le mani, per esplorare il corpo, le gambe. Mi ritraggo. Ho orrore di me, del sangue che presto imbratta le mani. Sangue e salsedine e un bruciore di ora in ora sempre più insostenibile. Ho freddo, ho un pianto disperato fermo in gola. Mi muovo, lascio che l’altro fianco, il più dolente, faccia la sua parte. Accumulo sabbia, come meglio posso. Con le natiche, con i gomiti. Accumulo sabbia intorno a me e sopra di me. Sarà la mia coperta. La mobile caverna in cui mi inabisserò. Poi le luci della casa si spengono. Il mondo chiude i suoi battenti. Anche la luna si ritrae. È solo un forestiero in questa notte senza amore. E pure le stelle sembrano opporsi alla vita. Tutto immobile, tutto disossato, ogni cosa finita e dimenticata. È una notte senza anima. Una notte senza te, Carlo, a quest’ora già dormiente tra le braccia di Nerina. È una notte vuota di presenze, il deserto più gremito di solitudini che mai umano abbia attraversato. Io qui, dentro la mia urna di sabbia, la voce arrochita dall’urlo. «Ivano, ti prego. Ivano, Ivano.» Inutile segno lanciato nel mondo, nome senza conseguenze e urlo che sa come rifluire indietro. Mi stringo, mi chiudo come un’inutile fisarmonica. Le unghie affondano sugli avambracci. Sono io adesso la tenaglia più confortante. Strofino, poi, ripetutamente le mani su quella porzione di pelle ancora intatta. Pelle e sabbia. Posso farcela a riscaldarmi, a fare di me il focolare più intimo, più costruttivo, e intanto precipito nel pozzo nero di domande senza risposta. Che ne sarà di me, fragile incudine di questa pioggia così impietosa, così disposta a non finire? Bevo acqua e vento. Bevo il nome di Ivano. Infine crollo.


Premi

Video – Interviste

Recensioni

Relazione a cura di Giovanna Fileccia per la presentazione del 16 dicembre 2022 presso la Biblioteca Comunale “Claudio Catalfio” di Terrasini (Pa).

LA VITA – CHE – VUOLE ESSERE GUARDATA

In questi anni mi è capitato di presentare libri che secondo la mia interpretazione avevano colori che andavano dal bianco al rosso, dal verde all’azzurro; altri che erano tendenti al giallo o al grigio, ma è la prima volta che presento un romanzo dai colori del buio, un romanzo che già dal titolo Di notte, solo di notte rafforza il messaggio. E la notte è ritratta anche in copertina: uno sfondo nero e un profilo appena accennato di donna dai lineamenti cesellati: il naso all’insù, la bocca ben disegnata, la fronte alta. Una donna quasi trasparente totalmente rapita dai suoi stessi pensieri. Giusi Russo insegna lettere in un liceo di Palermo. È appassionata di cinema, teatro e tango argentino. Il suo primo romanzo Chilometro 9 ha vinto il Premio Letterario Mario Luzi nel 2017. Ha pubblicato la raccolta poetica Il cielo nell’anima con cui, nel 2004, ha conseguito una menzione di merito al Premio Ugo Foscolo. Di notte, solo di notte è la sua terza pubblicazione, un romanzo premiato al Concorso Letterario Fëdor Dostoevskij nel 2021. Il libro come vedremo trasporta il lettore in vortici di prosa poetica e di narrazione centripeta (poiché il centro della storia narrata da Giusi Russo è Angela). Nella sua prefazione la SCRITTRICE Laura Corsini scrive: “Giusi passa in un istante dall’aulico più sublime e cruscante alla parola sfacciata, lanciata in faccia come una secchiata di acqua gelida.” Io mi spingo un po’ oltre e affermo che la storia che leggerete vi gelerà al di là delle parole scritte poiché questa che oggi andremo ad affrontare è una vicenda fuori dall’ordinario capace di far rabbrividire anche coloro che sono avvezzi all’oscurità dell’anima.

Il c’è dell’incipit è una accetta, un’anafora che batte il tempo un c’è che è esserci nonostante tutto. Ma chi c’è dietro quel c’è? Già dalle prime parole facciamo la conoscenza di Angela la quale si racconta a noi lettori e scrive per imposizione e per necessità perché ha un tumore alle corde vocali ed è in attesa di un intervento chirurgico. “Scrivo per trovare il punto di origine” afferma Angela, un punto difficile da raggiungere poiché sta dall’altra parte della parentesi. Le sue parole hanno un unico destinatario: Carlo il figlio. “Ti penso altrove, so immaginarti intatto\ Tu prima di me, prima della ferita.” Angela è protagonista e voce narrante. Dice: “ho percepito la mia vita come un destino che ha saputo attendermi”. E il destino ha una collocazione ben precisa a cominciare dall’anno: il 1990. Angela è un’antropologa e con il suo collega e amico Alfredo in quel periodo si trova a Lampedusa, lì incontra il giornalista vecchio\giovane con il quale affastellano parole su parole, citano Parmenide e Platone e amano entrambi il mito della caverna. Angela rivede Ivano al funerale della zia Lorena, ne è attratta tanto da desiderare di farci l’amore. Ma quel momento che lei aveva idealizzato si trasforma in dramma poiché lui, Ivano, la stupra, lasciandola ferita dentro e fuori. È l’amico Alfredo a prendersi cura di lei senza chiederle nulla. Nelle settimane che seguono lei dimagrisce e volutamente dimentica di essere stata stuprata. Ma, mi chiedo, si può dimenticare una violenza subita? Poi, per caso, Angela vede Ivano a Torino in compagnia di un’altra donna -Enrica- e i due sembra che sprigionino amore; entrano in un portone ma… poco dopo eccolo davanti a lei: le parla e lei parla con lui. Angela… una donna attratta dal suo stupratore.

Lorena ha un ruolo fondamentale nella vita di Angela. A pagina 214 leggiamo: “Che c’entra Ivano con mia zia? Perché non mi ha mai parlato di lei? Perché io non gli ho mai parlato di lei?” Di notte, solo di notte è un viaggio a ritroso, Angela ricorda con estrema chiarezza uno dei giorni che ha passato insieme a Ivano: lui l’ammalia e Angela si veste di sensualità e di dipendenza tanto da chiedersi “Che sto facendo?”, e ciò che è evidente al lettore è la disperazione che… si aggrava di umiliazione la sera in cui, durante una cena, Ivano si indispone e la lascia al tavolo del ristorante da sola e lei rimane seduta ad attendere il suo ritorno. L’abbandono è qui emblematico e doppio: lui abbandona lei e lei abbandona se stessa. Il romanzo di Giusi Russo traccia il ritratto di una donna fragile con un’autostima vicina allo zero ma che nel sapere cosa sia la compassione trova il modo per non soccombere allo sconforto. Ella dice “La compassione l’ho incontrata negli occhi impenetrabili di Michele, come un accidente piombato all’improvviso, l’insopportabile interferenza da rilasciare indietro per non perdere il suo ruolo di padre.” E qui avviene l’inganno maggiore poiché ella provando compassione per se stessa, nel ritrovarsi nel ruolo di donna desiderata, non sa reagire, non è capace di ribellarsi, non riesce a distaccarsi da questo uomo assoluto, egoista e anaffettivo. Ivano la soggioga, la esaspera eppure Angela lo accoglie e lo accontenta al di là di ogni ragionevole richiesta. La normalità in questa storia non è di casa, è una storia paradossale e implosiva. Non c’è ribellione in Angela. Forse il suo l’atteggiamento remissivo posso rintracciarlo nel suo primo vagito: è in quel momento che si giocherà la partita della sua esistenza. Lei nasce e la madre muore. Abbandonata fin dal suo primo pianto, è cresciuta poi con un padre collerico e assuefatto all’alcol. Eppure è una donna che al lavoro dimostra una forte personalità e sicurezza. Ma nel suo rapporto con Ivano è debole. Ivano è come se conoscesse l’attimo perfetto tra la supplica e il calcolato sopruso: c’è penetrazione anomala da parte di lui e assenza di orgasmo da parte di lei, amante vergine. Angela è sopraffatta dalla forte personalità di quest’uomo vecchio\giovane, che le taglierà i capelli con foga e cattiveria e lei, annichilita e rassegnata, coprirà la testa rasata con un foulard nero: simbolo di lutto per la sua chioma e per la sua vita. Eppure Angela, in un modo singolare, gli farà scontare l’onta, poiché escogiterà un piano iniquo per rimanere incinta. Mi chiedo: quanto il desiderio di essere madre può giustificare rispettivamente: la non-ribellione all’abuso, l’accettare il ruolo di vittima e il ricorrere all’inganno. Ciò che mi appare evidente è che Angela nel suo narrare non prova rabbia ma rassegnazione; la rabbia è assente anche quando lei vive il presente. Come mai? Forse il motivo potrebbe essere il seguente: Angela è inconsapevolmente attratta da Ivano perché rappresenta l’uomo che lei reputa “giusto” come padre per suo figlio: Ivano è bello e intelligente, sicuro di sé e indipendente. Ma questa è solo una mia interpretazione, un ricercare da parte mia un motivo logico per il quale Angela soggiace e non si ribella al dominio di questo uomo. Di notte, solo di notte è un romanzo che bisogna leggere tra le righe. La trama è nascosta dalle parole e le parole svelano, pagina dopo pagina, una sovrastruttura stilistica volutamente intrisa di poetica. Giusi Russo descrive Angela come una donna socievole e intelligente, realizzata dal punto di vista lavorativo e ben integrata nel tessuto sociale nel quale si muove con scioltezza. Eppure vive la relazione con Ivano in completa solitudine, si autoesclude dalla vita delle persone che le vogliono bene e si allontana da chi le consiglia di scappare a gambe levate da quest’uomo. La passione che prova e più forte di ogni altra cosa. Ha bisogno di lui, è schiava di un amore malato e paludoso, un amore che la fa prostrare e sprofondare nelle sabbie mobili che tutto inghiottono e dalle quali nulla riemerge. Angela deciderà di scappare solo dopo un incontro con Enrica che l’annienterà facendola sprofondare nel tetro abisso. Raggiungerà il collega e amico Alfredo in Africa è lì nascerà Carlo. No lettura Questo è un romanzo crudo che scortica la pelle e incide le ossa. Un romanzo d’artista al quale vi approccerete come ci si approccia a un’opera d’arte. Contemplerete le parole e vi meraviglierete di come Giusi Russo le abbia intessute per narrare la storia di Angela. Rifletterete molto e riderete poco, eppure un guizzo di leggerezza lo troverete a pagina 240, una leggerezza subito soppressa da una depressione fatta di parole e sentimenti dall’aria pesante come cappa che porta afa e scirocco. Un vento pesante di piume nere a ombrello sopra capelli che sono prigionieri e prigione di un destino. E il destino ha le sembianze di un incidente stradale, e quando Angela si sveglia in ospedale, accanto a lei c’è Ivano e, al suo “Perdonami”, lei cede e sa che senza di lui nulla ha senso. E finalmente pochi giorni dopo gli comunica dell’esistenza del loro figlio Carlo e vivranno la fase più felice prima del profondo buio.

Ma il mattino dopo, puntualmente, si dissolve. E il mattino è un’anafora, un ritornare al tocco iniziale, al c’è dell’incipit. C’è la notte e c’è il giorno a cadenzare la mancanza, l’assenza; la notte col suo buio salvifico e il giorno con la sua luce che addita. Poi, nello spiraglio -nel cuneo di luce-, appare una visione che ingloba il buio-dolore e, solo per un momento, il nero della notte ritorna al cielo e si lascia risucchiare dal buco nero. Cosa ci sarà dall’altra parte? “La vita ci chiede uno sguardo, vuole essere guardata.” A dispetto del dolore, della violenza, dell’angoscia, a discapito della dipendenza, dell’annullarsi; a favore dell’amore, della passione, del combattere con se stessi… contro se stessi. Con stile ricercato, stridente e aspro, Giusi Russo cattura il lettore e lo introduce in un viaggio verso l’inferno. Un percorso a ostacoli dove le parole sono strade da scavalcare, rincorrere, staccionare. La sfida è superare l’ostacolo per raggiungere quella meta chiamata rispetto. Rispetto per l’amore, per la donna, per i figli. Rispetto per il corpo, per l’anima e per la psiche. Rispetto che significa usare le mani con dolcezza e le parole per trasmettere tenerezza. Ogni forma di violenza ha il suo risvolto, ne ho parlato tanto e continuerò a ribadirlo a denunciarlo attraverso ogni canale possibile, dalla poesia, al monologo teatrale e attraverso i libri che presento come questo di Giusi Russo. Negli anni ho realizzato che è la gentilezza la grande assente nei rapporti interpersonali, quando manca la gentilezza viene meno anche il rispetto. Mi avvio verso la conclusione di questa mia e Vi invito a leggere Di notte, solo di notte e a scoprire le risposte a queste domande: Angela riemergerà dalle sabbie mobili? Perché si trova in galera e come andrà l’intervento alle corde vocali? Inoltre: Come reagirà suo figlio Carlo nel leggere la lettera? E per finire: come ha potuto Angela confidare al figlio le brutture che ha subito? Nel romanzo di Giusi Russo le parole sono stampelle con le quali procedere, sono pennellate che segnano strade da percorrere affinché ogni persona -donna o uomo che sia- possa ritrovare la stima per sé stessa, possa amarsi tanto da desiderare per sé solo amore e bellezza.


Recensione di Fiorella Friscia pubblicata su MadeinSicily.

Difficile definire romanzo il lavoro di Giusi Russo. Mi piace immaginarlo come un itinerario narrativo che affonda nelle sabbie mobili della psiche, dove non è sufficiente un labile bagliore per diradare l’oscurità di una lunga notte esistenziale. E non c’è l’happy end. Angela, che ama la notte, compagna che non tradisce, è la protagonista non solo di un lavoro che toglie il respiro, ma coinvolge emotivamente chi si immerge in questa lettura. Perché se vuoi vivere molte vite, devi lasciarti andare nell’immedesimazione e, di colpo, diventi Angela, e fatichi poi ad uscire da questo dolente involucro, perché forse c’è un’Angela nascosta in ogni donna, in letargo, ma pronta ad occupare la mente ed il cuore. C’è un’Angela nei sogni infranti, nelle aspettative frustrate, nel pensare al futuro che è ormai alle spalle: Angela è, in fondo, la metafora di vite incompiute. La trasformazione in pensiero di dolorose pulsioni interiori è come un “uppercut”, un colpo che stordisce e l’autrice ne assesta così tanti da lasciare il lettore al tappeto … Ma impariamo a conoscerla. Giusi Russo è un’insegnante, una studiosa di letteratura dal sorriso gentile e dallo sguardo mite, dotata di una intensa, spietata capacità empatica di anamnesi delle tensioni identitarie che si muovono nell’animo femminile e che risalgono in superficie con la forza devastante di un tornado. “Di notte, solo di notte” non è lettura di evasione . È altro: un racconto gotico di potente intensità, con un lessico che penetra nelle viscere dell’anima con la forza di una coltellata; è una storia di dolore e di sorda violenza, di solitudini che si intrecciano senza catarsi ed il linguaggio, che traduce in parola un pensiero frammentato, ne è la cassa di risonanza e rispecchia, nella sua consistenza, il girovagare irrisolto nei meandri esistenziali senza meta … Giusi Russo è brava ad ammantare di un’atmosfera indecifrabile l’universo limitato di Angela, abitato da evanescenti e labili figure maschili, la cui inadeguatezza non riesce ad avere nemmeno contorni tragici e la cui inconsistenza viene subita come normalità che non ingenera nemmeno delusione. È l’essenza dell’essere “donna” che aspira al suo compimento, ossia divenire il centro dell’impianto narrativo in termini di amore, di maternità, ma che si scontra con l’impossibilità di esistere, che non riesce a confortarsi con gratificanti mistificazioni… L’autrice si libera del pessimismo che, come un sarcofago, imbriglia vite e dissolve speranze ed aspettative, e lo affida ad Angela, un alter ego affabulante di notte, dimensione in cui affina la sua capacità di scrutare dentro se stessa; ridefinisce, come in un carosello, le molteplici, irrisolte, sfaccettature di donna disperatamente complessa. “Di notte, solo di notte”, si ricompongono in una incessante sovrapposizione le sue identità …madre, figlia, amante, senza più differenze e delusioni. Ma è proprio nella complessità dei ruoli che la vita assegna prima di tradire, di annientare speranze ed aspettative, nell’essere madre, figlia, amante che l’autrice colloca il suo disagio esistenziale che si placa solo nel buio della notte, dimensione in cui la solitudine salvifica la fa ritrovare con se stessa. Nel buio della notte si affina finalmente lo sguardo ed i contorni dei fantasmi che abitano il mondo di Angela prendono consistenza ed in quella solitudine dolente, ma pacificante si astrae dalla sua non placata sete di vita .

Novità

Di notte, solo di notte

Il nuovo appassionante romanzo di Giusi Russo